UNIVERSITA' CATTOLICA DEL SACRO CUORE DI MILANO - Facoltà di Giurisprudenza - Corso di Laurea in Giurisprudenza

LA TUTELA PENALE DELLA LIBERTA' RELIGIOSA - Tesi di Laurea di LORENZO GRASSANO Matr. 2901015

 

Capitolo III. Libertà di espressione artistica e il vilipendio della religione cattolica nella giurisprudenza ordinaria.

 

<< RoGoPag >> di PIER PAOLO PASOLINI.

 

Il Tribunale di Roma, con sentenza 7 marzo 1963 [1], condanna l’episodio << La ricotta >> [2] del regista Pier Paolo Pasolini, inerente al film << RoGoPaG >> [3] per vilipendio alla religione dello Stato ex. art. 402 c.p.

Il contesto storico in cui è pronunciata la sentenza  è quello nel quale la religione dello Stato è considerata la religione cui lo Stato italiano << attribuisce una posizione di preminenza, in considerazione che essa è professata dalla maggir parte degli italiani >>. È lo stesso Tribunale che sottolinea come il legislatore del 1930 intende tutelare in modo specifico il sentimento religioso << quale indiscusso patrimonio morale di un popolo >>.

La situazione di particolare tutela penale che si accorda alla religione cattolica deriva dall’enorme importanza sociale e storica attribuito alla Chiesa cattolica, e dall’essere il culto da essa professato, quello a cui appartiene la maggior parte del popolo italiano.

Non vi è contrasto di carattere sostanziale fra quanto previsto dall’art. 402 c.p. e il principio della uguaglianza fra le varie religioni, ex. art. 8, primo comma Cost. in quanto non risulta sussistere un limite al libero esercizio dei culti e alla libertà in genere delle varie confessioni religiose, e nemmeno una limitazione della condizione giuridica di chi professi un culto diverso da quello cattolico, ex. art. 19 Cost.

Il Tribunale giustifica la suddetta compatibilità proprio alla luce della diversità di regolamentazione operata dalla Costituzione, individuandone l’oggetto specifico << nel pubblico interesse di proteggere la religione cattolica apostolica romana in quanto religione della maggioranza degli italiani, considerata in sé stessa nelle sue credenze fondamentali, indipendentemente dalle sue manifestazioni esteriori >>.

Per quanto riguarda la nozione di vilipendio il Tribunale si allinea a quella che è l’opinione comunemente accolta in giurisprudenza e in dottrina.

Vilipendio inteso come l’offesa grave, che può esprimersi con ogni tipologia del sentimento e del pensiero, e che assume il carattere << della derisione, del disprezzo,del dileggio, dello scherno, così che l’agente mostri di tenere a vile la istituzione tutelata dalla legge >>.

Per integrare la fattispecie ex. art. 402 c.p. il vilipendio può essere diretto contro la religione dello Stato, sia nella sua interezza, come nelle sue componenti essenziali.

Il Tribunale non ritiene che, nella trama in sé considerata, si possano riconoscere elementi sufficienti per poter parlare di vilipendio; facile capirne il messaggio sociale in essa contenuto, così come materializzato nella vicenda del povero Stracci.

Pasolini afferma che il protagonista rappresenta il sottoproletariato, di cui la società vuole dimenticare l’esistenza, e che la sua morte è un modo di porre il problema sociale in modo chiaro ed esplicito.

Le intenzioni che hanno mosso il regista sono di sviluppare una critica alla società contemporanea  e non quelle di vilipendere la religione cattolica; inoltre la parte religiosa del film rappresenta solo un profilo marginale dell’intera opera, senza esserne parte essenziale.

Il Tribunale non condivide le affermazioni del regista.

È vero che la trama e il messaggio hanno un contenuto che oggettivamente è quello voluto da Pasolini, ma ciò che non pare accettabile è il fatto che alcune scene, le varie inquadrature e  le musiche sembrano strutturate per schernire e deridere la religione cattolica << nella sue manifestazioni più intime ed esenziale >>, in modo più che esplicito.

Il regista tenta di giustificare la scelta di accostare la morte di Stracci a quella di Gesù. L’idea gli sarebbe venuta da un fatto di cronaca realmente verificatosi, inerente alla morte di una comparsa durante la ripresa cinematografica dell’eclissi di sole del 1961. La comunanza di elementi fra la morte di Stracci e quella di Gesù si spiega perché ciò sarebbe << la proiezione fantastica, concreta, visiva di un elemento ideale, intimo del personaggio di cui sarebbe palese la profonda seppure istintiva e primitiva religiosità >>.

Per il Tribunale il profilo cruciale della vicenda consiste nel fatto che Pasolini, per evidenziare la religiosità della condizione in cui si trova Stracci, e quindi per illustrare la sua concezione del fenomeno religioso, si permette di offendere la religione cattolica nelle sue manifestazioni più intime e in modo del tutto immotivato.

È l’oggettiva idoneità di certe sequenze, accompagnate da particolari musiche e parole, che si pongono come vilipendiose della religione cattolica.

Nel film vi sono scene in cui si vedono attori e comparse mentre non sono impegnate a girare sotto la macchina da prese, e scene in cui si da vita alla passione e morte di Gesù.

Il Tribunale nota come, sia sotto un profilo quantitativo che qualitativo, il materiale della pellicola non sembra soddisfare gli scopi che Pasolini afferma essere stati il vero stimolo per la realizzazione del film: gran parte dell’opera, invece, sembra essere indirizzato verso una palese presa in giro della religione cattolica.

Sono molte le scene che sono oggetto di attenzione da parte del Tribunale, come per esempio la scena in cui il regista, per rappresentare la deposizione di Gesù da vita ad un quadro vivente, copia artistica rinascimentale del Rosso Fiorentino.

La scena, sebbene all’inizio si dimostri idonea ad ispirare un forte sentimento religioso ed un profondo senso di misticismo, viene rovinata da musiche quali << twist >> e << cha cha cha >>, che accompagnano la scena della Croce e mentre vengono inquadrati i volti del Gesù morto e della Madonna.

Si potrebbe ritenere che i fatti descritti nel film riguardo alle scene sacre siano riferibili solo alle comparse che agiscono e che le scene documentano sono il comportamento irrispettoso  ed ignorante di attori che interpretano parti di cui non capiscono l’alto valore spirituale, ma per il Tribunale tali giustificazioni non hanno fondamento.

È lo stesso << spirito >> del film che sembra diretto ad una aperta quanto immotivata derisione del culto cattolico.

È del tutto palese che le scene incriminate scherniscano e deridano il Cristo della tradizione e che da ciò venga offeso il sentimento religioso della maggioranza degli italiani.

Il mezzo utilizzato da Pasolini per esprimere la sua critica sociale,e per converso la sua particolare concezione della religione cattolica, acquista un significato particolare per il contenuto della sentenza.

Il regista non indirizza il suo pensiero ad un ristretto gruppo di intellettuali, o a chi, in forza del proprio grado di cultura non si sentirebbe offeso nella sua fede religiosa da una palese offesa al suo sentimento religioso.

Il messaggio di cui è portatrice l’opera è diretto alla massa del popolo italiano che appare, agli occhi del Tribunale, << più soggetta a subire gli attacchi ideologici di chi, con disinvoltura e abilità, riesca a mettere in ridicolo e a immiserire le componenti essenziali della sua credenza >>.

È vero che la Costituzione tutela e garantisce la libertà di opinione e di creazione artistica, ma ciò non può servire a giustificare il comportamento di chi, con intenzione o meno, vilipende la religione dello Stato.

Il Tribunale non ritiene che Pasolini abbia esercitato in modo legittimo il diritto di opinione, in quanto nel film non si nota la volontà di istaurare un serio dibattito in materia religiosa; c’è solo un continuo e immotivato dileggio di simboli e oggetti sacri. Per esimersi dalla condanna di vilipendio Pasolini avrebbe dovuto dar vita ad una critica motivata della religione cattolica, sulla base di una indagine condotta con serietà e metodo , cosa che non è avvenuta

Il legislatore, ex. art. 402 c.p. punisce il comportamento di chi dileggia o schernisce, in modo intenzionale o meno, la religione dello Stato, in quanto in essa risiede un sentimento religioso collettivo riconosciuto meritevole di tutela e a cui tutti devono tributare il più alto rispetto.

Per accertare la sussistenza o meno dell’elemento intenzionale il Tribunale si affida a quella che è ritenuta l’opinione comunemente accolta dalla giurisprudenza e dalla dottrina, che non riconosce, per la sussistenza del delitto, la necessità del dolo specifico. È sufficiente che l’agente voglia l’azione tesa alla produzione dell’evento lesivo, con la consapevolezza della sua idoneità a produrre tale risultato.

 

A diversa conclusione perviene il Tribunale d’ Appello di Roma, con la sentenza 7 marzo 1963 [4].

Il Tribunale sembra dare particolare importanza ad una dichiarazione scritta e letta dallo stesso regista all’inizio del film in cui afferma che coloro i quali << si sentiranno colpiti cercheranno di far credere che l’oggetto della mia polemica sono quella storia e quei testi di cui essi ipocriticamente  si ritengono difensori. Niente affatto : a scanso di equivoci di ogni genere, voglio dichiarare che la storia della Passione è la più grande che io conosca, e i testi che la raccontano i più sublimi che siano mai stati scritti >>.

Pasolini nega di avere mai avuto lo scopo di offendere la religione cattolica e dichiara che il profilo religioso del film, fatto poi oggetto di contestazione, era del tutto necessario per far risaltare l’atteggiamento semplice e spontaneo del protagonista davanti al comportamento di chi, non credendo a niente, agisce solo per il proprio tornaconto personale.

In sede di Appello i difensori rilevano che la sentenza di condanna ha posto in essere un arbitrario sezionamento del film, estrapolando singole parti dell’opera per poi giungere ad uno stravolgimento del significato complessivo; inoltre, mancando un’autentica ricerca relativa alla sussistenza o meno del dolo,  e con ciò trascurando le vere intenzione manifestate dal regista all’inizio del suo film, si sarebbe identificata quella che potrebbe essere un’opera genericamente << blasfema >>, con il suo contenuto vilipendioso.

Se il giudice di primo grado riconosce il vilipendio in quelle scene, a contenuto sacro, che riproducono gli atteggiamento sconci a cui si abbandonano gli attori e le comparse del film, partendo dal presupposto che tali scene non fossero necessarie nell’economia dell’opera, tale opinione non è accolta dal Tribunale di Appello.

Quando in campo artistico si decide di rappresentare qualcosa di profondamente immorale o abbietto, è quasi naturale che si giunga ad utilizzare parole, immagini e suoni che meglio rappresentino l’idea di immoralità e abiezione.

Pasolini non avrebbe scelto di girare l’episodio << La ricotta >> al solo scopo, come sostenne l’accusa in primo grado, di offendere la religione cattolica in quanto, per rappresentare certi aspetti della vita contemporanea, il regista non avrebbe potuto che servirsi << di quei gesti, di quelle immagini, di quelle parole, che meglio traducessero, visivamente e auditivamente , il proprio pensiero, le proprie idee, le proprie fantasie >>.

La Corte ritiene che le varie scene irriverenti che si avvicendano nell’intera opera non siano il mezzo scelto da Pasolini per offendere il culto cattolico, bensì il modo necessario per rappresentare certi fenomeni o situazioni sociale che intendeva comunicare al pubblico, come ad esempio  il comportamento di molti registi e attori che, durante le riprese di film a soggetto sacro << manifestano assoluta insensibilità morale di fronte alle cose più sacre e degne di venerazione >>, oppure lo stato di profonda miseria morale e materiale in cui versa il sottoproletariato urbano.

Nessuno può sostituirsi ai giudici naturali nell’interpretazione della legge penale italiana, ma la sentenza non omette di rilevare come dell’opera di Pasolini si siano interessate riviste cinematografiche e critici qualificati e che in nessun caso si sia denunciata, specialmente nell’ambito cattolico, offesa alla religione cattolica: persino il Centro Cinematografico Cattolico ha incluso il film tra quelli << sconsigliati >>, e non tra quelli << esclusi >>, come avvenne per il film << Viridiana >>; inoltre, non vi furono, durante le rappresentazioni dell’opera nelle sale cinematografiche manifestazioni di protesta: dimostrazione che, pur essendo all’epoca la maggioranza della popolazione cattolica, essa non si è sentita offesa nel suo sentimento religioso.

In base a tutte queste considerazioni la Corte ritiene che il film di Pasolini, considerato nel suo complesso e nella inscindibilità che caratterizza ogni opera d’arte, non integri gli estremi del reato ex. art. 402 c.p.,e assolve il regista perché il fatto non sussiste.

 

 

<< I DIAVOLI >> di KEN RUSSEL.

 

Il Giudice istruttore del Tribunale di Milano , con sentenza 21 settembre 1971 [5], dovette pronunciarsi in relazione al film << I Diavoli >>[6], del regista americano Ken Russel.

I motivi per cui si chiese il sequestro del film riguardano principalmente le scene in cui compaiono monache che, durante gli esorcismi effettuati da parte dei cappuccini, si dimenano e gesticolano in modo osceno, di solito nude.

Il profilo specifico su cui si basa il rifiuto da parte del Tribunale di concedere il sequestro risiede sul fatto che si deve << prescindere dall’analisi delle singole scene >> per concentrare invece l’attenzione sull’aspetto storico e artistico della vicenda narrata.

Si può respingere o non apprezzare un opera nella sua interezza, ma non pare lecito modificare ciò che l’artista crea, senza correre il rischio di falsare il lavoro << nel suo armonioso equilibrio e nelle sue sapienti proporzioni >>.

La tesi è alquanto discutibile; infatti se la si volesse accogliere in pieno, si dovrebbe escludere il reato di vilipendio in un film in cui si svolga una scena palesemente vilipendiosa, qualora l’opera artistica, nel suo insieme non rechi alcun segno di offesa al culto cattolico.

Non vi sono dubbi sulla storicità dei fatti descritti nel film in quanto si possono consultare numerose opere firmare e scritti anonimi dell’epoca; inoltre la vicenda storica della lotta condotta da Richelieu per soffocare le varie autonomie locali francesi.

Per il Tribunale l’opera di Russel è portatrice di un messaggio che non conosce epoche e che può dirsi perciò attuale: << il conflitto fra libertà individuale e soprafazione ( statuale o religiosa ) >>, rappresentato dai rapporti fra Urbain Grandier e Martin de Laubardemont.

Le scene incriminate, anche nei loro particolari più sconcertanti, non possono essere scisse dalla vicenda nella sua totalità. La tecnica scelta dal regista può anche impressionare, ma il Tribunale lo riconosce come mezzo necessario a disposizione di Russel per svelare i contenuti del conflitto di cui sopra.

La tesi per cui certe scene avrebbero dovuto necessariamente essere girate con certe modalità ricorre molto spesso nelle sentenze che assolvono registi o produttori accusati di vilipendere la religione cattolica. A ben vedere, però, non si capisce dove possa risiedere questa << necessità >> in quanto niente, in campo artistico può dirsi necessario.

Nel caso considerato vi è una << trama >> storica da seguire, in conseguenza della quale si potrebbe essere indotti a credere che certe scene, che poi sono quelle contestate, avrebbero dovute essere girate per forza con quelle inquadrature risultanti nell’opera finale; ma così non è in quanto qualsiasi episodio storico, per quanto circostanziato e particolare, può essere narrato e reso al pubblico in una varietà di modi che può trovare un limite solo nella fantasia del singolo regista. 

Sebbene l’accusa di vilipendio alla religione cattolica non si basi esclusivamente sulle scene orgiastiche in sé, ma derivi dal loro accostamento al sacro, ciò non sarebbe sufficiente per la sussistenza del reato de quo, in quanto << è da escludere che la rappresentazione di un episodio storico condotta nel sostanziale rispetto dei fatti documentalmente tramandati, pur eseguita secondo la personale sensibilità dell’artista, e che investe un costume religioso tramandato, possa essere ritenuta offensiva per la religione >>.

  

 

<< TI SALUTO, MARIA >> di JEAN LUC GODARD.

 

Il Tribunale di Bologna, con sentenza 27 luglio 1985 [7], si pronuncia in relazione al film << Je vous salue, Marie >> del regista francese Jean Luc Godard e Anne Marie Mieville, in quanto è stato denunciato vilipendio alla religione dello Stato ex. art. 402 c.p.

Per il Tribunale in conseguenza della legge 25 marzo 1985 ( che ratifica ed esegue l’accordo del 18 febbraio 1984, che apportava modifiche al Concordato lateranense dell’11 febbraio 1929 ) l’ipotesi criminosa non deve più ritenersi sussistente. In conseguenza del fatto che il punto 1 contenuto nel Protocollo addizionale reciti che << si considera non più in vigore il principio, originariamente richiamato dai Patti lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano >>, è facile dedurre come lo Stato debba rapportarsi, nei confronti del fenomeno religioso, da una prospettiva di maggior << neutralità >>: non si parla di agnosticismo o indifferenza, ma solo che lo Stato si deve ritenere libero << da quei profili di preminenza attraverso i quali, rispetto ad altri culti, doveva essere riguardato quello cattolico >>.

Non sussiste più la religione dello Stato, mentre tutte le ipotesi di vilipendio previste dall’art. 406 c.p. accordano tutela non immediatamente alla religione << in sé e per sé >>, bensì solo quando, e quindi in via mediata, venga arrecata offesa ai relativi ministri o fedeli, ai relativi luoghi o cose oggetto di culto, alle relative funzioni, pratiche o cerimonie; ciò è sufficiente per ritenere che non si sia penalmente rilevante il comportamento di chi rechi offesa direttamente alla religione cattolica in quanto tale.

Il film di Godard, il quale si ritiene che offenda la religione cattolica per alcune scene irriguardose nei confronti della figura di Maria, non sarebbe nemmeno lontanamente valutabile in relazione e norme di legge diverse da quelle ex. art. 402 c.p.

L’articolo che punisce il vilipendio alla religione dello Stato non è stata abrogata, ma può ritenersi non più operante, in conseguenza dell’abrogazione dell’art. 1 della legge n. 810 del 1929 che, fornendo la nozione di religione di Stato, integrava nell’oggetto la previsione normativa contenuta nell’art. 402 c.p.

Nella parte inerente al giudizio strettamente di diritto, la sentenza si conclude con una precisazione: il fatto che la religione cattolica non venga più considerata come la sola religione dello Stato non può indurre a ritenere che tale culto sia ancora la religione dello Stato, pur non essendo più la sola. In caso contrario la tutela verso i c.d. culti ammessi dovrebbe essere affidata all’art. 402 c.p., con un aggravamento, per i violatori, che sarebbe difficile giustificare da un punto di vista logico o normativo.

Il film è suddiviso in due parti, fra loro del tutto autonome. La prima, dal titolo << il libro di Maria >> [8], di Anne Marie Mieville non è oggetto di particolare attenzione da parte del Tribunale in quanto non vi sono riferimenti religiosi di alcun genere.

La seconda parte, << Je vous salue, Marie >> [9], è quella più critica perché strutturata come una parafrasi della vita della Madonna. L’intenzione da parte del regista di affrontare tematiche strettamente religiose è dimostrata anche dai nomi dei protagonisti ( Gabriele, Giuseppe, Eva ).

Il motivo per cui non si può parlare di vilipendio nel caso considerato risiede nella particolare modalità con cui il regista affronta la vicenda narrata nei Vangeli che, seppur non trovi riscontro nella Tradizione, non sembra irridere o volgarizzare la figura di Maria.

Il Tribunale sembra voler cogliere le due tematiche su cui si concentra il lavoro di Godard: una Divinità che sembra lontana dai drammi dell’Uomo e la reazione della Madonna di fronte ad un avvenimento che non comprende e condivide sino in fondo.

I protagonisti del film sono tutti animati da una umanità fortissima: Maria, la quale capisce l’importanza del messaggio da essa ricevuto, ma che non riesce ad abbandonarsi al disegno divino con piena serenità; Giuseppe, che sebbene giunga a credere alla sincerità della ragazza, continui a manifestare dubbi e preoccupazioni; ed infine Gabriele, che non sembra preoccuparsi dei timori di Maria, la quale è spesse volte trattata in modo brusco e arrogante.

Con la sua opera Godard ha voluto dare corpo alla tesi per cui il libero arbitrio dell’Uomo, nel corso della sua esistenza, << pur non azzerato, è tuttavia sovrastato e condizionato da Disegni e Leggi infinitamente più grandi e forti di lui >>, e ciò avviene senza futilità o grossolanità.

Per sottolineare i momenti di rabbia, tristezza e ribellione che accompagnano Maria durante la sua scelta il regista si è affidato ad alcune scene di nudo, ma il Tribunale riconosce come sia difficile in esse anche il più minimo contenuto erotico o blasfemo. Non pare che il regista abbia volutamente suscitare libidine nei confronti dello spettatore, quanto invece descrivere il lento e difficile evolversi della condizione della protagonista.

Alla luce di quanto affermato nella prima parte della sentenza, il Tribunale si pronuncerà per assolvere il distributore del film in quanto il fatto non è più previsto dalla legge come reato.

Le ragioni che hanno portato alla sentenza di assoluzione sembrano potersi accogliere senza particolari riserve.

Se la sentenza di assoluzione nei confronti di Pasolini non tiene in considerazione che certe scene sono << oggettivamente >> improntate ad una forte irrisione del culto cattolico, mentre nel film di Russel la << necessità >> di certe scene appare alquanto discutibile, nella fattispecie considerata non si cade in nessuno di questi errori.

Godard affronta un tema religioso di estrema importanza senza essere mosso dalla volontà di offendere il culto cattolico, e riesce a dare forma alle sue opinioni con modalità tali che sarebbe veramente arduo riconoscere in esse un carattere vilipendioso.

 

 

<< L’ULTIMA TENTAZIONE DI CRISTO >> di MARTIN SCORZESE.

 

Il film << L’ultima tentazione di Cristo >> del regista Martin Scorzese è proiettata per la prima volta in Italia in occasione della XLV Mostra del cinema di Venezia, e solleva subito numerose denuncie e richieste di sequestro; vi è anche la costituzione di parte civile di numerosi cittadini e dell’associazione << Segretariato nazionale reagire per la difesa morale dell’uomo >>.

Il film si concentra sul duplice profilo, divino e umano, della figura di Gesù, ed è proprio il modo in cui il regista rappresenta le tensioni e i desideri del Cristo che solleva la questione se possa configurarsi vilipendio della religione cattolica ex. art. 402 c.p.

Ciò che in modo particolare è fonte di critica è l’ultima scena, in cui una bambina-angelo mostra a Gesù, agonizzante sulla croce, una visione di quello che sarebbe potuto essere il suo futuro con Maddalena. Si vede Gesù che crea una famiglia con la donna e, quando muore, amoreggiare con la sorella di Lazzaro e con la propria cognata, mettendo al mondo altri figli. Una volta sul letto di morte, capisce che l’angelo in realtà era il demonio, e quando la visione si conclude Gesù si ritrova sulla croce pronto a morire per la salvezza del mondo.

Il Tribunale di Venezia, con sentenza 8 ottobre 1988 [10], riconosce che la ricostruzione della morte di Gesù è lontana dall’insegnamento della Chiesa cattolica, ma ciò non integra il reato di vilipendio sulla base che << la tentazione in sé come insegna la stessa morale, non è peccato, costituendo anzi il suo superamento un merito spirituale maggiore >>.

La sentenza ricorda che sia la giurisprudenza che la dottrina attribuiscono al termine vilipendio il significato di << volontà di arrecare offesa >>, << manifestazione sostanzialmente dispregiativa >>, << esposizione al ludibrio a allo scherno con manifestazioni oltraggiose >> nei confronti dei valori etico-spirituali della religione cattolica.

Il regista non intende affrontare questioni teologiche di nessun genere, e nella sua intenzione di rappresentare i vari sentimenti ( tutti tipicamente umani : quali l’affetto, l’ira la rabbia, lo sconforto …) che assalgono la figura di Gesù nel corso della sua vita il Tribunale non scorge alcunché di blasfemo.

Il fatto che si rappresenti Gesù innamorato di Maddalena non sembra urtare il sentimento religioso cattolico, in quanto non si capisce perché << quest’uomo non potrebbe o non dovrebbe provare uno dei sentimenti più naturali e cioè l’amore per una donna >>.

La trama del film non è certo conforme all’insegnamento della Chiesa, ma è anche vero che i fatti descritti non sono una invenzione gratuita e immotivata del regista, trovando invece un riferimento ai vari dibattiti di carattere teologico che da sempre circondano la figura di Gesù.

Non ha senso concentrare l’attenzione su alcune scene del film di Scorsese, attribuire loro un significato di novità e indicarle come penalmente rilevanti.

Non solo il modo in cui l’intera opera è stata girata è riconosciuta come pieno esercizio delle libertà previste dalla Costituzione ex. art. 21 e 33, ma i motivi per cui non vi sono i presupposti per invocare il vilipendio della religione ex. art. 402 c.p. possono essere colti in altre fonti del diritto e in altri testi.

Il Tribunale, infatti, ricorda il principio storicamente consacrato della libertà religiosa e della libera discussione religiosa affermato sin dalla legge n. 1159 del 1929 ( per la quale ex. art. 5 << la discussione in materia religiosa è pienamente libera >>.

Sono gli stessi ricorrenti che per giustificare la richiesta di sequestro si richiamano in modo esplicito alla particolare tutela che le modifiche al Concordato accordano alla religione cattolica, ma per il Tribunale questa tesi è giuridicamente insussistente.

È lo stesso preambolo del nuovo Concordato stipulato fra Stato e Chiesa il 18 febbraio 1984 che rinvia in modo esplicito ai << concetti innovativi e agli sviluppi del concilio Vaticano II >>, i cui decreti, costituzioni e documenti contengono richiami per la materia de qua.

La sentenza riporta a titolo di esempio il contenuto di certi testi dove si legge, per esempio, che << … il rispetto e l’amore deve estendersi pure a coloro che pensano o operano diversamente da noi nelle cose sociali, politiche e persino religiose >> ( Gaudio et Spes ); oppure che << … la persona nella società deve essere immune da ogni umana coercizione in materia religiosa >> ( Dignitatis humanae ).

Non ha senso chiedere un intervento coercitivo da parte dello Stato di fronte a richiami così espliciti alla tolleranza in materia religiosa derivante dallo stesso Concordato o dal concilio Vaticano II: insomma, è la stessa Chiesa cattolica che si preoccupa di non interferire nell’altrui pensiero, rispettandone i contenuti.

La sentenza si chiude ordinando il rigetto delle varie istanza di sequestro penale e il proscioglimento con formula piena.

 

Il Procuratore generale presso la Procura della Repubblica di Venezia appella la sentenza di proscioglimento; muovendosi dalla premesse che non rientri fra i compiti di nessun giudice valutare l’ortodossia delle posizioni espresse in un opera d’arte, il procuratore ribadisce il  carattere vilipendioso del film in questione, non solo quando suggerisce il verificarsi di una unione carnale fra Cristo e la Maddalena, ma pure nei riguardi della scena in cui Cristo giunge a far visita alla Maddalena in un bordello.

La Corte d’Appello di Venezia rileva come, sebbene l’art. 402 c.p. << vieti di tenere a vile >>, la dottrina e la giurisprudenza ritenga che la fattispecie di vilipendio sia costruita in termini non descrittivi, ma << a carattere emotivo >>, dal contenuto vago e indefinito, << dal momento che qualsiasi critica non può non avere l’intento di cogliere il punto debole dell’oggetto verso cui si rivolge o, quanto meno, di ridimensionarle l’importanza e quindi di diminuirlo o svilirlo >>: da ciò la difficoltà di distinguere nei vari casi concreti la critica dal vilipendio; inoltre la considerazione che il vilipendio alla religione dello Stato non si diriga contro una istituzione, verso cui debba risultare necessaria la tutela delle funzioni, bensì verso << un patrimonio di idee e di credenze >>, ne risalta il contrasto con la libertà di manifestazione del pensiero sancita dall’art. 21 della Costituzione.

Il carattere emotivo presente nel termine << vilipendio >> può implicare che qualsiasi elemento nella manifestazione del proprio pensiero che diverga da tradizioni o convinzioni consolidate riesca a porsi come vilipendioso, ma ciò non può comportare protezione giuridica a qualsiasi reazione emotiva.

Il Tribunale non ritiene che le varie scene incriminate integrino la fattispecie ex. art. 402 c.p., riconoscendo in esse solo una personale rappresentazione del regista della vicenda umana di Gesù e della sua lotta per accettare, e far accettare, il messaggio evangelico di cui era portatore.

Nei riguardi della scena in cui Gesù visita il postribolo, il giudice afferma come essa risulti necessaria nell’economia del film ( Gesù infatti per seguire il suo destino abbandona la Maddalena, destinatagli in sposa sin dall’infanzia, la quale non vede, a causa dell’abbandono, altra soluzione se non quella della prostituzione: la visita al bordello ha l’unico scopo di ottenere il perdono da parte della donna ); mentre nei riguardi della scena più contestata, l’ultima tentazione che si verifica durante la crocifissione del Messia, il Tribunale la giustifica sulla base che non si tratterebbe di una tentazione della carne, che sarebbe già stata respinta nel deserto, << ma della tentazione della normalità, di un destino comune, dal quale era stato sino ad allora escluso >>.

In tale presente ricostruzione della storia di Gesù, di certo lontana da quelli che sono i dogmi riconosciuti dalla Chiesa cattolica, non sembra potersi riconoscere elementi vilipendiosi.

Anche volendo ammettere che il film di Scorzese possa turbare le coscienze di tutti coloro i quali vivono il culto cattolico in maniera più profonda e sentita di altri, è difficile negare all’opera serietà di intenti e perfetta buona fede, del tutti indipendenti da un giudizio del valore artistico dell’opera in sé considerata.

Il Tribunale di Venezia, con sentenza 8 giungo 1989 [11] conferma la sentenza del Giudice istruttore, respingendo l’appello del Procuratore Generale.

  

<< VIRIDIANA >> di LUIS BUNUEL.

 

Il 25 gennaio 1963 il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano ordina il sequestro del film << Viridiana >> [12] del regista spagnolo Luis Bunuel, vincitore della Palma d’Oro al Festival di Cannes.

Le motivazioni si basano sul fatto che l’opera, nel suo complesso, offende la religione dello Stato, mediante la negazione di << validità dei precetti religiosi e l’irrisione dei simboli della religione stessa >>.

La Procura di Milano trasmette gli atti al Tribunale di Roma, per motivi di competenza territoriale, che  con decreto 12 febbraio 1963 [13], decide sulla questione.

La scena del film che con ogni probabilità maggiormente si avvicina a vilipendere la religione cattolica è quella in cui si assiste ad alla consumazione di una cena, cui segue il tentativo da parte dei mendicanti di approfittasi di Viridiana.

La disposizione dei personaggi intorno alla tavola richiama la raffigurazione dell’Ultima Cena di Leonardo da Vinci, e si può anche ritenere che tale scena costituisca una parodia di dubbio gusto della tela del grande pittore, ma in essa non sono ravvisabili gli estremi del vilipendio alla religione cattolica: non solo manca qualsiasi riferimento alla istituzione del sacramento dell’Eucaristia, ma non c’è riferimento diretto a nessun dei personaggi della vicenda evangelica. Non c’è un attacco oltraggioso o infamante al significato profondo  che l’Ultima cena ha assunto per la religione cattolica.

Il Tribunale nota che << la valutazione religiosa del fatto umano è ben diversa dalla valutazione giuridica, giacché sotto il primo profilo potrebbe essere ritenuta blasfema ogni azione non improntata ad assoluta venerazione di tutto quello che concerne, direttamente o indirettamente, la religione; mentre, sotto il secondo profilo, il giudizio su di esso è più circoscritto, perché si riferisce agli uomini e ai rapporti fra gli uomini.

L’episodio della cena e del tentativo di violenza nei confronti di Viridiana è assunta dal regista a mezzo per rappresentare il fallimento dell’opera << misericordiosa >> della giovane ragazza la quale, benché abbia sfamato i suoi poveri come meglio credeva, non è riuscita a redimerli.

Nel film è facile notare un particolare interesse alle deviazioni morali: la sessualità che oscilla fra misticismo e semplice soddisfazione dei propri istinti, l’egoismo che si confonde con la carità, la miseria da cui nasce violenza; ma è oggettivamente difficile ritenere che da tutto ciò si possano riconoscere elementi sufficienti per poter affermare che nell’opera di Bunuel la religione sia stata tenuta a vile.

Nelle scene del film non è possibile riconoscere disprezzo o disconoscimento degli alti valori che si attribuiscono alla religione in sé considerata o verso certe sue componenti, e sebbene sia possibile non condividere la critica anticattolica mossa dal regista mediante la sua opera, il suo punto di vista emerge sempre in via occasionale e non tocca mai i limiti del vilipendio.

Dalla trama del film è evidente la tesi sostenuta da Bunuel per cui non è sufficiente sfamare i poveri ed invitarli alla preghiera, ma è necessario conferire loro la dignità perduta e non << umiliarli con una elemosina che non può emanciparli, perché non può redimerli >>.

Non meno evidente è la critica del regista verso quelle manifestazioni esteriori delle pratiche religiose che si confondono con una sterile superstizione, << rivelando così, quasi una natura comune >>.

Per quanto si possa muovere critiche al simbolismo usato del regista, a volte veramente di dubbio gusto, non ci sono scene che dileggiano o disprezzano le credenze fondamentali della religione cattolica, quali ad esempio i suoi simboli i riti o l’idea stessa di Dio.

Il decreto si conclude con la richiesta rivolta al Giudice istruttore presso il Tribunale di Roma di pronunciare decreto di non doversi a procedere l’azione penale e di ordinare la restituzione, agli aventi il diritto, delle copie del film sequestrare a seguito del provvedimento a suo tempo pronunciato dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano.

    

<< TABU’ >> di MARCELLINO ROMOLO.

 

Il 6 dicembre 1963 il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo ordina il sequestro del film << I Tabù >>, del regista Marcellino Romolo, ravvisando vilipendio della religione dello Stato in conseguenza del suo contenuto osceno. Gli atti vengono poi trasmessi al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma per motivi di competenza, avendo accertato che la pellicola era stata per la prima volta programmata nella capitale. Il Tribunale, con sentenza 23 dicembre 1963 [14], assolve il produttore perché il fatto non costituisce reato.

Il film, che ha poi la natura e le caratteristiche di un documentario, riproduce usi e costumi di vari popoli, che il regista ritenne originali e caratteristici in quanto ritenuti capaci di descrivere diversi gradi di cultura, educazione e civiltà.

Il film tocca vari argomenti. La prima parte descrive il modo con cui il nudo non viene considerato un << tabù >> in diversi Paesi del mondo: per esempio in Giappone, dove il bagno promiscuo fra persone nude di sesso diverso avviene di frequente, oppure in Nord Europa, dove prosperano campi per nudisti che ospitano uomini, donne e intere famiglie.

Il documentario continua soffermandosi sulla pratica dei tatuaggi, a cui si sottopongono uomini e donne appartenenti alle più diverse categorie e classi sociali.

Una parte rilevante dell’opera è dedicata al sesso e al tabù che presso taluni popoli può rappresentare: per esempio, vengono ripresi i bassorilievi che ritraggono gli antichi templi di Kajoraho, in India, in cui si vedono coppie umane nei più svariati atteggiamenti amorosi, prova, ad avviso del regista << del costume di un popolo in cui l’amore fisico non è tabù >>; oppure si documenta il diverso modo con cui l’umanità si rapporta all’amore, materia di insegnamento in Svezia, o strumento di degradazione nelle case di piacere di Bombay.

Viene descritta anche la violenza, attraverso la scena che ritrae i c.d. << Raggar >>, i giovani teppisti scandinavi, che privi di alcun freno morale, vivono fra inutili violenze e pubblici amori che, e che nell’intenzione del regista dovrebbe ricordare la strana condizione << di una gioventù forse chiamata domani a costituire la classe dirigente di uno fra i Paesi fra i più evoluti del mondo >>.

La parte conclusiva del film è quella per la quale si è palesato l’ipotesi di vilipendio della religione dello Stato ex. art. 402 c.p.; in essa viene ripreso un lebbrosario gestito da cattolici, nella regione del Korala ( in India ), mentre i poveri malati ricevono il Sacramento dell’Eucaristia: il vilipendio risiederebbe nell’aver accostato questa scena, avente un alto contenuto spirituale e morale, ai precedenti episodi di sesso, bassezze ed infamità morali.

I difensori del produttore sostengono, non solo che i fatti non costituiscono reato per difetto di dolo, ma che il film altro non è che un documentario in cui si è voluto descrivere nel modo più veritiero e imparziale possibile costumi singolari e interessanti di popoli e Paesi lontani, e che l’opera può ritenersi lecito esercizio del diritto di cronaca.

Il Tribunale non considera il film << i Tabù >> fra quelli che possono dirsi << sessuologici >> ( << in cui episodi di lussuria si alternano a quelli di sadismo, di crudeltà e violenza verso se stessi e gli altri >> ), ma al pari di questi non omette di inserire, dopo una lunga serie di scene che talvolta scadono nell’osceno, scene religiose ad alta carica mistica, quasi a giustificare l’immoralità delle azioni e immagini precedentemente riprodotte.

Il produttore cerca di giustificare la sua scelta sostenendo che l’episodio ha un valore profondamente religioso, il cui messaggio sta a significare come << la fede in Dio e la speranza vincono il tabù più spaventoso del mondo, cioè la lebbra >>.

Questa tesi difensiva non sembra essere presa in considerazione da parte del Tribunale, che invece nega la presenza di vilipendio << sia perché la sequenza non contiene alcunché di offensivo per i riti e i simboli della religione, sia perché il semplice fatto del suo inserimento in un film, a parziale contenuto osceno, non può indurre a ritenere esistente la volontà nell’imputato di vilipendere la religione >>.

  

TROISI.

 

Nel 1979 alcuni privati cittadini denunciano alla Pretura di Roma che la RAI avrebbe diffuso, il 28 aprile e il 22 novembre dello stesso anno, due programmi, << Luna Park >> ed << Effetto smorfia >> dove sarebbe configurabile il reato di vilipendio alla religione dello Stato.

Si tratta di una scenetta ispirata alla vicenda evangelica dell’annunciazione a Maria che, per il linguaggio con cui è stata ricostruita, gli atteggiamenti e i costumi adottati dagli attori, e per il generale modo con cui il testo è recitato, appare diretto a deridere la religione cattolica.

Fra gli imputati figurano Domenico Scarano, direttore della prima rete televisiva, e i membri del trio << La smorfia >>, Raffaele Arena, Vincenzo Purcaro e Massimo Troisi.

La Pretura di Roma, con sentenza 3 ottobre 1980 [15] si pronuncia per la non sussistenza del reato denunciato.

La sentenza ricorda che per integrare la fattispecie de qua è necessario recare offesa << all’essenza stessa della religione >> ( vale a dire l’idea stessa di Dio, i dogmi del culto, le verità indiscutibili e suoi riti ).

Particolare è il fatto che il Pretore richiede per la punibilità del delitto in questione, sia il dolo generico ( inteso come volontà libera e cosciente e intenzione di commettere il fatto ), sia il dolo specifico ( e cioè lo scopo di vilipendere la religione cattolica ): il Pretore si discosta da quella che è l’opinione comunemente accolta in dottrina e giurisprudenza che non richiede la presenza del dolo specifico per integrare la fattispecie ex. art. 402 c.p.

Il Pretore innanzi tutto esclude che si possa parlare di dolo specifico.

Leggendo il testo della scenetta è del tutto chiaro che gli autori hanno voluto affrontare, nei modi a loro più congeniali, il tema della disoccupazione nella città di Napoli. Ciò sarebbe provato anche dal fatto che nessuno, fra i vari funzionari RAI preposti ai controlli dei programmi televisivi, abbia mai sollevato il dubbio che si potesse dare una ben altra interpretazione del testo.

Certe espressioni dialettali, pause e battute maliziose possono dare origine a fraintendimenti e far assumere all’intera scena un significato ambiguo o grossolano, ma ciò non è sufficiente per parlare di vilipendio alla religione dello Stato.

Risulta palese che la donna visitata dall’Arcangelo Gabriele nella scenetta non è la Madonna, bensì la moglie di un povero pescatore che cerca un diverso lavoro << meno pericoloso e più redditizio >>, e si può quindi escludere che fra le intenzioni degli attori figuri quella di attaccare il dogma della verginità della madre di Gesù.

Si potrebbe ritenere sussistente il dolo generico in considerazione del modo in cui viene rappresentato l’Arcangelo Gabriele, così sprovveduto da scambiare la Madonna per la moglie di un pescatore, ma anche ciò viene negato dal Pretore, sulla base dell’origine e formazione cui provengono gli autori e interpreti della scena televisiva contestata.

L’elemento che appare rilevante è il fatto che la scena è costruita conformandosi a quella che risulta essere la tradizione teatrale partenopea, in cui l’elemento del divino è trattato sempre secondo la particolare sensibilità religiosa del popolo partenopeo. Tutti sono a conoscenza del singolare modo con cui i meridionali concepiscono i rapporti con la Divinità, da cui però, traspare una profonda e autentica fede: ciò è stato ritenuto sufficiente per escludere la presenza del dolo generico e per prosciogliere gli imputati dall’accusa di vilipendio.



[1] In Foro it., 1963, II, pag. 207.

[2] Il film racconta la giornata di lavoro di un gruppo di attori e di comparse intende a girare alcune scene della passione di Gesù. Il protagonista del film è Stracci, un povero individuo che nelle scene del film dovrebbe impersonare il buon ladrone ma che nella vita reale accetta qualsiasi lavoro pur di guadagnare qualcosa per vivere. Nelle intenzioni del regista, Stracci rappresenta la parte più misera del proletariato che, senza mezzi e senza educazione, è costretto a vivere ai margini della società, senza alcuna possibilità di una sua elevazione fisica e spirituale.

Stracci è un uomo buono, un uomo che, per sfamare la sua numerosa famiglia, lavora anche quando è malato e che si trova abbandonato e indifeso nella sua condizione di umile lavoratore.

La sua sfrenata passione per la ricotta, nonché l’abbondante quantità di cibo ingurgitata che altre comparse gli offrono in tono di scherno, lo condurrà alla morte, quando, una volta inchiodato alla croce, da vita alla “sua” passione e morte.

Il film si chiude con il laconico commento del regista : << povero Stracci, la sua morte è stata il solo suo modo di fare la rivoluzione >>.

[3] Il nome deriva dalle iniziali dei cognomi dei registi dei singoli episodi: Roberto Rossellini ( << Illibatezza >> ); Jean Luc Godard ( << La fine del mondo >> ); Pier Paolo Pasolini ( << La ricotta >> ) ed Ugo Gregoretti ( << Il pollo ruspante >> ).

[4] In Dir. eccl., 1964, II, pag. 302.

[5] In Foro it., 1971, II, pag. 121.

[6] Il film trae ispirazione da un fatto di cronaca avvenuto nel 1632. Jeanne des Anges, priora di un piccolo convento di orsoline nella città di Loudun, divisa fra cattolici e protestanti, viene posseduta dal demonio. Le ACCUSE investono Urbain Grandier, curato di S. Pietro e canonico di Santa Croce il quale, sebbene goda in città grande reputazione, si è fatto numerosi nemici per essere stato protagonista di certe avventure femminile che lo hanno messo in cattiva luce presso il popolo. Nel 1632 Grandier si rifiuta di assumere l’incarico di direttore di coscienza delle orsoline offertoli dalla des Anges la quale sceglie un altro curato, Mignon, parente di una delle presunte vittime di Grandier. Le accuse di stregonerie rivolte verso Grandier si verificano dei primi effettuati proprio da Mignon. Martin de Laubardemont, commissario governativo incaricato di presiedere alla demolizione del castello che domina la città, riceve ordini da parte di Richelieu di indagare sulle responsabilità delle possessioni avvenute all’interno del convento. Viene arrestato Grandier, che però nega tutte le accuse. Nelle varie chiesa della città i cappuccini danno vita a numerosi esorcismi della suore che si teme essere possedute. La priora e numerose monache, fra convulsioni, denudamenti e bestemmie, confessano le colpe di Grandier, i cui ripetuti tentativi di negare se sue responsabilità non lo risparmieranno dal morire sul rogo.

 

[7] In Quad. dir. e pol. eccles., 1986, pag. 383.

[8] Storia si Marie, undicenne che vive in modo drammatico la separazione dei propri genitori.

[9] Il film è ambientato a Ginevra. Narra la storia di Marie, giocatrice di basket e figlia di un benzinaio, fidanzata con Joseph, tassista a cui un uomo di nome Gabriel annuncia che la sua ragazza partorirà vergine. La ragazza si sottopone ad una visita ginecologica che confermerà sia lo stato di verginità che quello di gravidanza. La ragazza accoglie la notizia come un dono divino, mentre Joseph decide di starle accanto in nome dell’amore che prova, sebbene la ragazza decida di rimane vergine per sempre. Marie, una volta cresciuto il figlio, ritorna ad una vita << normale >>, scelta rappresentata dal suo darsi del rossetto sulle labbra, che si dischiudono occupando l’intero schermo.

[10] In Foro it., 1988, II, pag. 705.

[11] In Il dir. dell’inf. e dell’inform., 1990, pag. 103.

[12] È la storia di una ragazza, Viridiana, che prima di prendere i voti in convento, decide di far visita allo zio Don Jaime. Lo zio ha perso la moglie il giorno delle loro nozze, e da quel tempo conserva morbosamente il vestito della defunta. Quando nota che Viridiana assomiglia in modo incredibile alla defunta, chiede di poterla sposare. La ragazza rifiuta, e allora lo zio, la costringe a vestire l’abito da sposa, la droga e una volta che la pone sul letto è tentato di violentarla, ma desiste. Quando la nipote si sveglia, per costringerla a restare nella propria fattoria, don Jaime la convince di aver approfittato di lei nel sonno. La ragazza, inorridita, scappa e fa ritorno al convento, mentre lo zio, vinto dal rimorso si suicida, dopo aver reso parziale erede la nipote della propria fattoria. Viridiana si convince di essere stata la causa della morte dello zio e, per nella speranza di calmare le proprie inquietudini, rinuncia ad entrare in convento per dedicarsi alla cura dei poveri, nella fattoria di Don Jaime, insieme al cugino Jorge, anch’esso erede della fattoria. Il modo in cui Viridiana pratica la carità, selezionando i poveri che possono accedere alla fattoria, non trova i favori del cugino, per il quale fare il bene consiste nel lavorare, agire, creare. I fatti danno ragione a Jorge. Una sera i poveri, completamenti ubriachi, organizzano un banchetto che si trasforma presto in un orgia. Viridiana viene aggredita, ma viene salvata dal cugino che riesce a convincere un altro degli straccioni ad uccidere il compagno. Il fatto che i poveri non abbiano ripagato la sua generosità, trasforma la ragazza, che si offre al cugino. Le ultime immagini del film si chiudono con Viridiana che sceglie una vita ambigua, istaurando probabilmente una relazione a tre con Jorge e la governante della fattoria, Ramona.

[13] In Foro it., 1963, II, pag. 118 , con la requisitoria 6 febbraio 1963 del p. m. P. Pedote

[14] In Dir. eccl., 1964, II, pag. 328.

[15] In Dir. eccles., 1981, II, pag. 423.

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